Coronavirus: perché non andrà tutto bene di Elena D’Alessandri
Coronavirus: perché non andrà tutto bene
di Elena D’Alessandri, collaboratrice prof Angelo Ivan Leone.
Il Covid-19 non è soltanto un virus che attacca i polmoni, talvolta senza lasciare scampo alle proprie vittime, che ha finora rastrellato famiglie, spazzando via quella generazione di anziani che rappresenta la memoria storica di questo Paese.
Il Coronavirus, che tutti avevamo voluto inizialmente sottovalutare, ma che nel giro di pochi giorni si è diffuso a macchia d’olio, presto proclamato pandemia, è un virus che ha intaccato le nostre vite e i nostri consolidati modelli organizzativi.
Ad oggi, con migliaia di contagiati e un bollettino di guerra che ogni giorno ci propone la conta delle vittime, si sta delineando un quadro chiaro che evidenzia una crisi sanitaria, sociale ed economica cui è necessario fornire risposte.
La crescente restrizione delle nostre libertà – che si sostanzia in una quarantena forzata, un provvedimento estremo, tuttavia necessario ad evitare l’ulteriore diffondersi del contagio – ha determinato una spaccatura forte e una significativa disomogeneità nell’opinione pubblica.
Lo scenario generale genera sicuramente sgomento. Le generazioni più giovani finora avevano vissuto guerre, carestie, epidemie soltanto attraverso le pagine dei libri di storia. E invece d’improvviso siamo stati noi stessi catapultati in una ‘guerra’ con un nemico invisibile e letale cui non eravamo preparati.
E oggi, come in un film di fantascienza, i sopravvissuti vagano bardati di mascherine e guanti in strade deserte nell’assordante silenzio di metropoli un tempo caotiche.
Le reazioni alla paura sono tante e diverse. Anche perché questo nuovo nemico ci ha costretto all’isolamento e alla solitudine, negandoci finanche un abbraccio capace di infondere coraggio.
Il mio pensiero va a tutti coloro che vivono da soli, magari non più giovanissimi e con maggiori difficoltà a rimpiazzare un incontro umano con un rapporto virtuale. Ma non solo a loro… alle vittime di violenza domestica, ai malati psichiatrici, ai bambini…
L’emergenza dovrebbe unire, e invece solidarietà, sostegno, vicinanza non sembrano brillare in questo difficile momento, in queste giornate tutte uguali, fatte di un tempo sospeso, non più scandito da orari e impegni.
Nelle regioni meno colpite dal virus, l’unica forma di solidarietà sembrava sostanziarsi in un 'flash mob' dal balcone, cantando insieme l'Inno di Mameli piuttosto che 'Azzurro' – iniziativa presto naufragata – mentre sui social tornano, carichi, gli odiatori da tastiera, animati da nuove forme di violenza verbale e di odio, alimentati anche da una classe politica inadeguata – italiana ma non soltanto – di matrice sovranista e populista.
E’ così che dai migranti il focus si è spostato ai ‘nuovi nemici’, dapprima i cinesi, portatori del virus, quindi runner e padroni di cani, quasi che, anche in un momento tanto difficile, permanga per molti il bisogno di avere un nemico da combattere. Proprio per esorcizzare la paura, molti hanno un irrazionale bisogno di dividere buoni e cattivi, bene e male, per identificare un’area sicura in cui rifugiarsi.
Esiste tuttavia un’altra Italia, quella che combatte in prima linea, fatta di medici, infermieri e operatori sanitari, vessati da turni massacranti e sovente neppure adeguatamente protetti. In quei reparti ospedalieri, ormai strapieni, in quelle corsie, in quelle terapie intensive dove ormai sfugge il conto delle vittime, c’è quell’Italia che sta combattendo per la vita, mettendo a repentaglio la propria stessa sopravvivenza.
Un’Italia in cui quelle vittime non rappresentano soltanto numeri. Erano padri, madri, nonni, fratelli, sorelle… Affetti strappati ai propri cari, cui il virus negato un conforto, costretti a morire in solitudine. Persone cui il virus oggi nega anche un ultimo saluto, costringendo l’esercito a portare via i feretri verso crematori ormai incapaci di gestire flussi tanto consistenti.
E infine c’è una ‘terza Italia’, costretta a casa, senza lavoro né salario. Sono coloro che per lo Stato non esistono, fanno parte del ‘sommerso’ – molto più per mancanza di alternative che per scelta – ma che di fronte al lockdown generalizzato non hanno garanzie né prospettive. Mossi da precarietà, fame, e incertezza, alcuni di loro si sono uniti sui social in gruppi che inneggiano alla rivolta, culminata a Palermo in un assalto ad uno dei più grandi supermercati della città.
L’emergenza Coronavirus ci ha messo di fronte ai nostri limiti, alle nostre fragilità, alla nostra solitudine, ma ha anche allargato la forchetta della disparità sociale, prestando il fianco a nuove forme di odio.
#Andràtuttobene è diventato uno slogan da balcone, forse una speranza di cui si ha un disperato bisogno. Questo slogan tuttavia pecca di una eccessiva retorica buonista. Non sta andando tutto bene. E non perché il coronavirus non passerà o spazzerà via l’umanità intera. Ma, più semplicemente, perché i decessi aumentano di giorno in giorno, perché intere categorie saranno incapaci di rialzarsi quando la tempesta si sarà placata, perché alla fine di tutto ci sarà una nuova classe di poveri, perché lo stesso progetto europeo - che sta mostrando le proprie fragilità - potrebbe venir spazzato via. Non andrà tutto bene, perché il prezzo da pagare, umano, sociale ed economico sarà altissimo. Perché, anche quando il peggio sarà passato, non sarà possibile tornare alla vita di prima.
Sarà indispensabile ripensare il modello organizzativo e lavorativo. Sarà indispensabile ripensare anche il nostro rapporto con la natura e lo sfruttamento indiscriminato finora perpetrato. Si tratterà di una ricostruzione, difficile, cui nessuno potrà sottrarsi.
di Elena D’Alessandri, collaboratrice prof Angelo Ivan Leone.
Il Covid-19 non è soltanto un virus che attacca i polmoni, talvolta senza lasciare scampo alle proprie vittime, che ha finora rastrellato famiglie, spazzando via quella generazione di anziani che rappresenta la memoria storica di questo Paese.
Il Coronavirus, che tutti avevamo voluto inizialmente sottovalutare, ma che nel giro di pochi giorni si è diffuso a macchia d’olio, presto proclamato pandemia, è un virus che ha intaccato le nostre vite e i nostri consolidati modelli organizzativi.
Ad oggi, con migliaia di contagiati e un bollettino di guerra che ogni giorno ci propone la conta delle vittime, si sta delineando un quadro chiaro che evidenzia una crisi sanitaria, sociale ed economica cui è necessario fornire risposte.
La crescente restrizione delle nostre libertà – che si sostanzia in una quarantena forzata, un provvedimento estremo, tuttavia necessario ad evitare l’ulteriore diffondersi del contagio – ha determinato una spaccatura forte e una significativa disomogeneità nell’opinione pubblica.
Lo scenario generale genera sicuramente sgomento. Le generazioni più giovani finora avevano vissuto guerre, carestie, epidemie soltanto attraverso le pagine dei libri di storia. E invece d’improvviso siamo stati noi stessi catapultati in una ‘guerra’ con un nemico invisibile e letale cui non eravamo preparati.
E oggi, come in un film di fantascienza, i sopravvissuti vagano bardati di mascherine e guanti in strade deserte nell’assordante silenzio di metropoli un tempo caotiche.
Le reazioni alla paura sono tante e diverse. Anche perché questo nuovo nemico ci ha costretto all’isolamento e alla solitudine, negandoci finanche un abbraccio capace di infondere coraggio.
Il mio pensiero va a tutti coloro che vivono da soli, magari non più giovanissimi e con maggiori difficoltà a rimpiazzare un incontro umano con un rapporto virtuale. Ma non solo a loro… alle vittime di violenza domestica, ai malati psichiatrici, ai bambini…
L’emergenza dovrebbe unire, e invece solidarietà, sostegno, vicinanza non sembrano brillare in questo difficile momento, in queste giornate tutte uguali, fatte di un tempo sospeso, non più scandito da orari e impegni.
Nelle regioni meno colpite dal virus, l’unica forma di solidarietà sembrava sostanziarsi in un 'flash mob' dal balcone, cantando insieme l'Inno di Mameli piuttosto che 'Azzurro' – iniziativa presto naufragata – mentre sui social tornano, carichi, gli odiatori da tastiera, animati da nuove forme di violenza verbale e di odio, alimentati anche da una classe politica inadeguata – italiana ma non soltanto – di matrice sovranista e populista.
E’ così che dai migranti il focus si è spostato ai ‘nuovi nemici’, dapprima i cinesi, portatori del virus, quindi runner e padroni di cani, quasi che, anche in un momento tanto difficile, permanga per molti il bisogno di avere un nemico da combattere. Proprio per esorcizzare la paura, molti hanno un irrazionale bisogno di dividere buoni e cattivi, bene e male, per identificare un’area sicura in cui rifugiarsi.
Esiste tuttavia un’altra Italia, quella che combatte in prima linea, fatta di medici, infermieri e operatori sanitari, vessati da turni massacranti e sovente neppure adeguatamente protetti. In quei reparti ospedalieri, ormai strapieni, in quelle corsie, in quelle terapie intensive dove ormai sfugge il conto delle vittime, c’è quell’Italia che sta combattendo per la vita, mettendo a repentaglio la propria stessa sopravvivenza.
Un’Italia in cui quelle vittime non rappresentano soltanto numeri. Erano padri, madri, nonni, fratelli, sorelle… Affetti strappati ai propri cari, cui il virus negato un conforto, costretti a morire in solitudine. Persone cui il virus oggi nega anche un ultimo saluto, costringendo l’esercito a portare via i feretri verso crematori ormai incapaci di gestire flussi tanto consistenti.
E infine c’è una ‘terza Italia’, costretta a casa, senza lavoro né salario. Sono coloro che per lo Stato non esistono, fanno parte del ‘sommerso’ – molto più per mancanza di alternative che per scelta – ma che di fronte al lockdown generalizzato non hanno garanzie né prospettive. Mossi da precarietà, fame, e incertezza, alcuni di loro si sono uniti sui social in gruppi che inneggiano alla rivolta, culminata a Palermo in un assalto ad uno dei più grandi supermercati della città.
L’emergenza Coronavirus ci ha messo di fronte ai nostri limiti, alle nostre fragilità, alla nostra solitudine, ma ha anche allargato la forchetta della disparità sociale, prestando il fianco a nuove forme di odio.
#Andràtuttobene è diventato uno slogan da balcone, forse una speranza di cui si ha un disperato bisogno. Questo slogan tuttavia pecca di una eccessiva retorica buonista. Non sta andando tutto bene. E non perché il coronavirus non passerà o spazzerà via l’umanità intera. Ma, più semplicemente, perché i decessi aumentano di giorno in giorno, perché intere categorie saranno incapaci di rialzarsi quando la tempesta si sarà placata, perché alla fine di tutto ci sarà una nuova classe di poveri, perché lo stesso progetto europeo - che sta mostrando le proprie fragilità - potrebbe venir spazzato via. Non andrà tutto bene, perché il prezzo da pagare, umano, sociale ed economico sarà altissimo. Perché, anche quando il peggio sarà passato, non sarà possibile tornare alla vita di prima.
Sarà indispensabile ripensare il modello organizzativo e lavorativo. Sarà indispensabile ripensare anche il nostro rapporto con la natura e lo sfruttamento indiscriminato finora perpetrato. Si tratterà di una ricostruzione, difficile, cui nessuno potrà sottrarsi.
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