Bussole dell’anima. L’importanza di chiamarsi libro secondo Simona Orlando.

 

Henri de Toulouse-Lautrec, Manifesto di Aristide Bruant, 1882


Ogni qualvolta sento il desiderio di comprare un libro, mi abbandono ad un rituale ormai celebrato da tempo. Raramente mi rivolgo alla cassa con nome dell’autore e titolo del libro. Devo essermi imbattuta inconsapevolmente, o per un caso parrebbe comunque guidato, in una pubblicità o ricerca digitale volta a tutt’altro.  Ma lì, a quei due, autore e titolo, mi riporta quasi ossessivamente. E così mi arrendo. Diffido da clamori pubblicitari, consigli più o meno avveduti.

Il legame è solo mio. Io e il libro. Tutto e tutti sono chiamati a starne fuori. Neanche un genere in particolare mi interessa. Ammetto che horror o gialli li evito. Di natura, rimanere sospesa, l’aspettare i tempi scanditi come un vecchio carillion dello svelare retroscena cruenti, sottili dettagli assolutamente giustificati dalla trama, non li condivido. Ribelle? Non credo. Il mio è solo senso di libertà. Lasciarmi guidare dal bello della vicenda, della caratterizzazione dei personaggi, dalle atmosfere psico- ambientali delle descrizioni, temporali, spaziali, psicologiche, narrative.

Senza “dovermi preoccupare “ di altro. Non l’avrei mai detto. Questa passione nasce spontanea. Come un atto di fede. Non c’è spiegazione logica o bisogno di empirica ragione a giustificarla, a trovarne il senso. Sono diventata così. Finché imposta, per esigenze scolastiche, per l’invito di attenti genitori che cercavano di instradarmi, non c’è stato verso. Poi, è arrivato il momento, prorompente. Come la vita, quando “si diventa grandi!” Perché poi alla fine, per non dire all’inizio, il libro è vita. Quella del lettore, che dedica il suo tempo, le sue emozioni, i suoi patimenti e le sue gioie al libro. 

Del libro perché dona evasione, approfondimento, nozioni, spazi e tempi mai o non ancora vissuti al lettore. Ci si perde l’uno nell’altro, in un afflato che ha un qualcosa di mistico che aleggia. Allora si sposano teorie; ci si riconosce in quello o quell’altro personaggio. Si impara, si litiga, ci si distrae, ci si riprende. Ci si comprende, come anche no. Nascono fraintendimenti, concetti/ comportamenti, frasi da capire, da dover spiegare e far spiegare, per poter andare avanti. Ci si lascia andare per poi ritrovarsi giorni, mesi, mi è capitato anche anni, dopo. Quando ritorna l’interesse iniziale. Come nella vita. 

Con i propri cari; colleghi; amici. 

Ma torniamo al rituale. Nel sacro edificio di una libreria entro, con l’atteggiamento del giovane apprendista mago. Supero cassa, settori mediatici e musicali, e imbocco corridoi pieni di scaffali. Sembro circondata. Si stagliano diretti al soffitto, alberi stilizzati, artificiali; le cui fronde sono ripiani di acciaio. Perché devono essere forti per sostenere tutto quello scibile umano. Percorro indomita, anche se un po’ in soggezione, tutte le strade. Giro e devío per altri anfratti; in attesa di un segno. Che immancabilmente si manifesta. La testa risponde all’invito di girarsi verso un”qualcosa”. 

Gli occhi si posano proprio in un punto preciso. Mi avvicino. La visuale si restringe. Il focus zoomma rapidamente su un’immagine. La copertina. Coll’indice libero il libro dal forzato accostamento ai suoi simili. Lo prendo tra le mie mani; lo tocco. lo giro e lo rigiro. Esamino il peso, gli angoli, faccio scorrere le pagine velocemente, assaporando al tatto la consistenza delle stesse. Direi quasi il profumo. Lo fletto. Poi mi soffermo su autore, titolo, trafiletto. Ancora i commenti di chi prima di me l’ha incontrato. È una ricerca di una conferma. Può essere una frase; l’immagine di copertina; la descrizione della trama. Semplicemente le vibrazioni che il tatto mi trasmette. Quello che sembrava un “sentire” ai più magari, strano, particolare, per non dire folle, mi fa intimamente e sottovoce dire, per non disturbare gli altri esploratori...Sei mio! E diretta, paga e soddisfatta mi incammino verso l’uscita.

L’impresa è compiuta. In giornate, particolarmente fortunate, può capitare che possano essere più di uno. In tutto questo non c’è una legge matematica imperante. Quello che solo conta è il senso di appartenenza, condivisione. Portali aperti a nuove culture, paesi, modi di pensare, esperienze di vita pregresse o contemporanee, o visionarie di un futuro! Ancora tutte da vivere. Da assaporare. Fare proprie. Sono Cammini non ancora esplorati, abiti da indossare. Una volta, per mia scelta. Ma niente è di ostacolo a rileggerli, perché nell’evoluzione che ci connatura, può “cadere” meglio, peggio, risultare corto, lungo, ampio, ristretto. Donare al proprio fisico come anche non ritrovarcisi piu. Non perché sia passata la moda, ma si è cambiati noi! 

In questo peregrinare letterario mi sono imbattuta in La legge del sognatore di Daniel Pennac. La legge è stata la mia formazione universitaria, per lungo tempo, la mia vita professionale. Ora il mio orgoglio, la mia chiave di interpretazione, il mio bagaglio culturale. Sognatore sempre stata, ma forse più idealista, un’inguaribile ottimista con radici ben salde a terra ma una chioma che ben orientata al cielo e accarezzata dal vento. Quale migliore libro! Poi addentrandomi tra le le righe dei paragrafi si è sviluppata una trama ispirata al grande regista italiano Federico Fellini. Filo conduttore, icona inseguita, idealizzata, imperante ed ingombrante in ogni pagina, come soltanto lui era capace di fare. Proprio questo non ho mai tollerato. Una realtà estremizzata, circense nell’ottica più drammatica, nostalgica, esilarante a tratti ridicola nell’esporre le ipocrisie, le fragilità, i controsensi dell’essere umano. Ma Pennac ha la straordinaria capacità di rendere il tutto leggero.

Il manoscritto si legge in poche ore, non vuole requisire il lettore in superfetazioni esistenziali. Affida ad un bambino, ai suoi genitori, al suo amico di giochi, con cui condividerà anche l’età matura di genitori, questa volta loro, il fardello della sua vita. Un libro che è puro virtuosismo letterario, dall’inizio alla fine. E i dubbi, finita l’ultima pagina si insinuano nel lettore: cosa ho letto? Ma l’avrò letto davvero? Ha scritto veramente questo? E poi cosa in fondo ha voluto dire? Ho sognato o è tutto vero? E poi, di tutto, cosa è vero? 

Cosa accaduto, cosa immaginato, cosa rimane? Una sciarpa rossa, un cappello, e la consapevolezza che sognare, poi non è così male, se non addirittura un incredibile, scoppiettante, malinconica visione della vita! Perché alla fine, anche se con un gran finale, anche i fuochi d’artificio, finiscono. Però cogli occhi ancora abbagliati dai pirotecnici colori, si torna alla realtà! E forse, mi auguro vivamente, con un altro spirito! D’animo!

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